GIORGIO ORTONA

Miei interventi

Le palazzine che si possono dipingere,
Intervento alla Casa dell'Architettura (Acquario Romano) Roma, 2018

Premessa necessaria a questo mio intervento sulla cosiddetta “palazzina romana”, è il fatto che la mia pittura elegge il paesaggio urbano e le sue derivazioni (quali sacchi di cemento o figure contestualizzate nel paesaggio costruito…) a stimolante, e pressoché inesauribile, campo di osservazione. Molta critica si è soffermata su questo aspetto, a partire da Marco Di Capua, che definisce la mia Roma, “la città di mezzo”. Cito da lui: “Una città anonima, normale, periferica, palazzinara perfino, simile a tante città mediterranee. È la parte di Roma che è cresciuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta attorno alla Tangenziale, a questo totem oggi venerato da molta giovane pittura romana, come un corpo attorno alla propria spina dorsale: Qui non c'è niente di eccezionale. In teoria non ci sarebbe niente da vedere.” Ora, per me, questa presunta anonimità estetica catturata con occhio pittorico, si rivela un serbatoio illimitato di visioni. Vittorio Sgarbi ha colto nella mia pittura “Un’evidente continuità di ricerca con un precedente artistico locale, la Scuola di Portonaccio, … una scelta della città nuova come paesaggio urbano, che ci fa capire come il brutto delle periferie romane possa contenere l’umanamente bello.” Io, del paesaggio urbano romano ho analizzato soprattutto la sua molecola: la palazzina. La mappatura pittorica della “mia” Roma, include prevalentemente le zone semiperiferiche quali Tiburtino, Casilino e Prenestino, per estendersi, non di rado, anche all’hinterland, ma rivolgendo in questo caso l’attenzione esclusivamente alle palazzine in fase cantieristica. Palazzine e cantieri, sono, quindi, i soggetti esemplari della mia ricerca estetica sul paesaggio urbano. Nelle mie intenzioni non è contemplata l’analisi storica dell’architettura romana, né tantomeno la denuncia sociologica. Nè ricerco le architetture dei più noti Aschieri, Ridolfi, De Renzi, Libera, Moretti o Luccichenti, anche se ovviamente non le escludo. All’interno di questo mio atlante pittorico potrebbero quindi capitare anche palazzine “firmate”, data l’immediatezza della mia scelta, una sorta di folgorazione estetica vissuta senza condizionamenti ideologici. Mi soffermo solo all’osservazione delle forme. Forme anche anonime e sconosciute, sulle quali leggere ciò che verrà tradotto in pittura. Prediligo quelle palazzine che hanno un prospetto maggiormente articolato. Palazzine nette e a più strati, che io definisco per gioco simili alle paste “diplomatico” sezionate con un coltello, e che per una resa efficace in pittura necessitano, però, di una base consapevole del disegno, e di conseguenza di una conoscenza rigorosa della geometria descrittiva. Questa materia, opzionale quando mi iscrissi all’università, diventò solo qualche anno dopo obbligatoria, e si è rivelata formativa per la mia pittura. Questa sorta di preparazione scientifica, non avrei potuto acquisirla, se non alla facoltà di architettura. Difatti, le “mie” palazzine le studio in tutte quelle ore del giorno nel quale il sole crea zone di forte contrasto, marcando i pieni e i vuoti, e questa sorta di “grammatica dello spazio”, è reminiscenza subliminale di quando all’università, attraverso le proiezioni mongiane, noi studenti inserivamo anche le ombre. Comunque possono essere oggetto dei miei lavori anche palazzine di recente costruzione, che spesso vediamo come cantieri, dove i filari dei mattoni permettono al disegno di divertirsi. I cantieri sono spesso “belli”, dipinti in questa fase, ma rivisitati a distanza di tempo nella realtà, mi si rivelano quasi sempre deludenti. A Torrevecchia lavorai sulla veduta di un cantiere, ma una volta terminata la costruzione dell’edificio, ritornare alla visione fu un brutto colpo d’occhio dato che non ritrovai più alcuna corrispondenza con ciò che avevo precedentemente ammirato. Questo perché gli scheletri, quindi i cantieri, sono quasi tutti identicamente rappresentabili. Ma se invece degli scheletri volessimo disegnarne le capigliature, allora avremmo una tale varietà di forme da poter affermare che quella è valida e l’altra no. La serialità è rassicurante. E pensando a certi cantieri di Giacomo Balla, sono convinto che oggi, anche lui avrebbe disegnato e dipinto le palazzine romane. Questa analitica della “palazzina romana” configura una mappatura insolita della città osservata sia dal basso, dal livello stradale, che dall’alto delle terrazze condominiali, terrazze di edifici degli anni 50 e 60, che mantengono ancora intatti i loro lavatoi, a volte “set” privilegiati della mia pittura. Nei miei lavori, rappresento non solo l’esterno, ma anche l’interno della palazzina, e ad esempio, in un mio quadro intitolato “Pianerottolo romano”, due figure, in controluce, sono posizionate davanti alla ringhiera della scala condominiale. Esattamente, questo frame l’ho colto, nella luce di un assolato pomeriggio, in una palazzina color verde pastello, situata in via Antonio Tempesta a Tor Pignattara. Due parole sull’aspetto cromatico delle palazzine: ad alcuni quadri ho dato il titolo del colore dell’edificio, chiamandolo ad esempio “Intonaco arancio”, o semplicemente “Giallo uovo”, perché queste palazzine sono molto colorate e spesso mi rimandano ai colori “Giotto” dell’infanzia. Questa insolita mappatura, diventa involontaria testimonianza delle metamorfosi della città, dato che può documentare la sparizione di un paesaggio, che è stato fermato definitivamente in un quadro. Ad esempio posso citare un mio dipinto del 1997, intitolato “Palazzina sulla Colombo”, olio su tavola, 20 x 14 cm, che rappresenta un palazzo isolato sulla via del mare, dove in primo piano emerge la prospettiva geometrica dell’edificio sulle campiture verdi di un prato pasoliniano: ecco, questo paesaggio ormai non esiste più, ingoiato dalla crescita degli edifici, e dall’avanzare inarrestabile di Roma. Concordo pienamente con il poeta Valerio Magrelli, quando afferma che alla fine questo mio lavoro è una dichiarazione di “inconfessabile amore per le palazzine di Roma, tanto universalmente deprecate”, eppure, molto più belle delle loro omologhe di Palermo, Napoli o Torino. Hanno al massimo sette piani, forse per non superare l’altezza di San Pietro e anche una certa grazia… che ispira un’alchimia cromatica che, secondo lui, giunge dolcemente a trasfigurare il reale. Ma la trasfigurazione pittorica della città avviene anche nelle vedute aeree, là dove anche un modulo di palazzina per me non formalmente accettabile, nella distanza si ordina e armonizza con il tutto. Ampliando il concetto: l’abuso edilizio è un obbrobrio, ma se tanti abusi edilizi li si osservassero da google maps, alla fine farebbero meno male all’occhio, e potrebbero anche ingannarci nella visione o illuderci, per assurdo, di assomigliare a delle croste del corpo umano oppure ad un cretto di Burri. Concludo con alcune notazioni tecniche sul procedimento esecutivo del mio lavoro: Uso prevalentemente compensato da 6 mm; sul retro incollo delle cantinelle due centimetri per due, che impediscono alla tavola di flettere, ed incollo il tutto con vinavil e chiodi senza testa. Successivamente passo 6/7 mani di gesso acrilico, fino a che il supporto non diventi levigato come un foglio da disegno. Ho sempre la necessità di lavorare su un supporto rigido, dato che per le architetture è indispensabile l’utilizzo di squadre e righe. A volte, sopra alla tavola, incollo della tela di cotone, la quale permette al colore di scivolare diversamente sulla superficie. Utilizzo sempre prodotti industriali, gesso acrilico, e colori ad olio in tubetto, olio di lino e trementina. Si rivela importantissimo il lavoro meticoloso del disegno (cosi come facevano gli antichi). Col colore molto diluito, potenzio le zone in ombra, per poi passare la prima mano di pigmento. Rinforzo il disegno sempre con la matita, per non perderlo, e poi di nuovo colore. Ripeto il procedimento fino a quando del risultato, non ne rimango soddisfatto. La superficie del colore la mantengo sempre piatta, senza avvallature, in maniera che la matita possa liberamente muoversi qualora decidessi di riadoperarla. Concludo questo mio breve intervento, dichiarando, attraverso l’arte, che le palazzine di Roma, sono un alto esempio di architettura italiana e Roma, senza le sue palazzine, sarebbe meno Roma.



Emanuele salvato dall'Atac
Polo Museale dell'Atac,, 2 aprile 2019

Sono poche le persone che ho conosciuto e che mi hanno profondamente colpito e forse cambiato. Una è sicuramente il più grande pittore vivente, il cui nome è Antonio Lopez Garcia. Ma stiamo parlando di arte. Se parliamo invece di vita, dico Emanuele Di Porto.
E’ uno degli scampati al rastrellamento del 16 ottobre del 1943, da parte dei nazisti, dove 1023 ebrei furono deportati. Tramite mio nipote Roberto, lo ho incontrato per la prima volta, in Piazza delle Tartarughe al ghetto, stessa piazza e stesso punto dove Emanuele e la madre si videro per l’ultima volta. Lui si salvò e la madre fu deportata ad Auschwitz.
Pitturo sempre e solo forme, anche se uso palazzine, sacchi, stadi, o ventilatori, ed è proprio per questo che non mi considero un pittore figurativo. Ho visto sempre l’astrazione, come più vicina all’assoluto, ed ho sempre pitturato forme, anche quando ho provato a dipingere “gli altri”, perchè, per me, la pittura è solamente una questione di linguaggio. Ora, invece, mi ritrovo a dipingere una persona e una storia, quella di Emanuele. Accadde anche con mio padre, subito dopo la sua scomparsa, quando decisi di dipingere un intero ciclo su di lui. La cosa strana è che fisicamente mio padre ed Emanuele si assomigliano, e molto. La storia di Emanuele, mi ha colpito, oltre che, ovvio, per la sua drammaticità, perché sembrava non essere vera, un’invenzione all’interno di un dramma, ma invece vera lo era: Un ragazzino che si nasconde in un tram per 48 ore, sembra quasi la sceneggiatura di un film neorealista. Cosi come ho provato, attraverso la pittura, ad entrare all’interno della commozione di Emanuele, ho pensato parallelamente che non fosse sufficiente la sola riproposizione di un tram in servizio, in giro per la città. Decido allora di voler entrare nei meandri dei mezzi pubblici di Roma, dove vivono e dormono la notte i convogli. Ce la faccio e ottengo un permesso per potervi accedere. Il posto per me è una miniera di forme a me sconosciute. Torri dove si riparano gli “Archetti” dei tram , geometrie che assomigliano alle corna dei cervi. E chi le aveva mai viste così da vicino? La Bacheca chiamata il “medagliere”, negli uffici del deposito, che riporta i veicoli che sono in servizio e quelli che sostano in deposito, Il museo vero potrebbe essere quello e non questo.
Marco Di Capua definisce la mia Roma, “la città di mezzo”. Cito da lui: “Una città anonima, normale, periferica, palazzinara perfino, simile a tante città mediterranee. È la parte di Roma che è cresciuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta attorno alla Tangenziale, a questo totem oggi venerato da molta giovane pittura romana, come un corpo attorno alla propria spina dorsale: Qui non c'è niente di eccezionale. In teoria non ci sarebbe niente da vedere.” Ed io aggiungo che della città di mezzo uno degli attori principali è proprio il tram.
Le forme che prediligo, sono quelle apparentemente più anonime, e che possono trasformarsi nelle più interessanti. Ecco perché le palazzine. Prediligo, ad esempio, quelle che hanno un prospetto maggiormente articolato. Palazzine nette e a più strati, simili alle paste “diplomatico”, che quando vengono sezionate con un coltello, sembrano ancora più buone. Ma per una resa efficace in pittura necessitano, però, di una base consapevole del disegno, e di una conoscenza rigorosa della geometria descrittiva. Questa materia, opzionale quando mi iscrissi alla facoltà di architettura, diventò solo qualche anno dopo obbligatoria, e si rivelò formativa per la mia pittura. Questa sorta di preparazione scientifica, non avrei potuto acquisirla, se non li. Spesso, le cose, le studio in tutte quelle ore del giorno nel quale il sole crea zone di forte contrasto, marcando i pieni e i vuoti, e questa sorta di “grammatica dello spazio”, è reminiscenza subliminale di quando, attraverso le proiezioni mongiane, meglio conosciute come proiezioni ortogonali, noi studenti inserivamo le ombre, ed allora usciva la tridimensione, simile ad una magia. Sono interessato dalla struttura delle cose, dalla loro costruzione, gli scheletri e le ossature, e spesso gli anziani. E ora, ecco perché anche i cantieri edili. La trasfigurazione pittorica della città avviene anche nelle vedute aeree, là dove anche un modulo di palazzina per me non formalmente accettabile, alla distanza si ordina e viene ad armonizzarsi con il tutto. Il mio è un lavoro sempre aperto, in divenire, sia per quanto riguarda l’esecuzione del quadro vero e proprio, ma anche per i titoli. Possono anch’essi cambiare nel tempo, a volte addirittura si cambiano da soli. Alcune vedute diventano, per questa mostra “Nuove mappe della metropolitana”, ed il ritratto intitolato “Lucia”, così nato quando lo eseguii, alcuni anni fa, è ora diventato “L’Atac dalla finestra di Lucia”, dato che effettivamente da quella cucina appaiono gli uffici dell’Atac. Concludo con alcune notazioni tecniche sul procedimento esecutivo del mio lavoro: Uso prevalentemente compensato da 6 mm; sul retro incollo delle cantinelle due centimetri per due, che impediscono alla tavola di flettere, ed incollo il tutto con vinavil e chiodi senza testa. Successivamente passo 6/7 mani di gesso acrilico, fino a che il supporto non diventi levigato come un foglio da disegno. Ho sempre la necessità di lavorare su un supporto rigido, dato che, ad esempio per le architetture, è indispensabile l’utilizzo di squadre e righe. A volte, sopra alla tavola, incollo della tela di cotone, la quale permette al colore di scivolare diversamente e meglio sulla superficie. Utilizzo sempre prodotti industriali, gesso acrilico, e colori ad olio in tubetto, olio di lino e trementina, per scelta, mi piace la Coca Cola. Si rivela importantissimo il lavoro meticoloso del disegno (cosi come facevano gli antichi). Col colore molto diluito, potenzio le zone in ombra, per poi passare la prima mano di pigmento. Rinforzo il disegno sempre con la matita, per non perderlo, e poi di nuovo colore. Ripeto il procedimento fino a quando del risultato, non ne rimango soddisfatto. La superficie del colore la mantengo sempre piatta, senza avvallature, in maniera che la matita possa liberamente muoversi qualora decidessi di riadoperarla.
Comunque, grazie Emanuele.

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